La concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del Codice Civile
“Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Ampia ed assai variegata è in realtà la casistica sottesa al disposto del richiamato art. 2598 del Codice Civile, per di più affiancata dalla complessa normativa di settore e Comunitaria la quale ultima, parallelamente al diritto nazionale, aspira ad inibire l’illegittima appropriazione della quota di mercato e/o della clientela del concorrente attraverso condotte che risultino contrarie all’etica commerciale ed alla correttezza professionale e che, per l’appunto, si concretizzano nell’improprio vantaggio, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti, acquisito dall’impresa ponendo in essere una pratica commerciale sleale, in quanto contraria ai principi che governano la competizione sul mercato. Presupposti indefettibili dell’illecito sono la qualità di imprenditore –ex art. 2082 cod. civ.- sia del soggetto che pone in essere la condotta sleale sia di colui il quale la subisce, nonché il rapporto di concorrenza e/o la comunanza di clientela che si realizzano, rispettivamente, nel contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, ovvero nell’offerta, sullo stesso mercato (inteso quale settore merceologico), di beni o servizi destinati a soddisfare bisogni identici o simili (allora si discerne di concorrenza c.d. “potenziale”) dei consumatori o clienti professionali. Evidenziato come la normativa di derivazione Comunitaria si sostanza in direttive aventi ad oggetto la pubblicità ingannevole e comparativa e le pratiche commerciali sleali tra impresa e consumatore, soffermiamo la nostra attenzione sulla disciplina codicistica racchiusa negli artt. 2598-2601 c.c., inaugurando l’analisi con riferimento alla casistica delineata dall’art. 2598, innanzi richiamato:
1) la prima fattispecie di concorrenza sleale contemplata dalla norma in esame attiene alla c.d. concorrenza confusoria laddove si attesta come illegittimo ogni comportamento idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente, cioè finalizzato ad attirare a sé nuova clientela creando confusione rispetto all’origine imprenditoriale del prodotto o dell’attività, facendo quindi passare come propri articoli che in realtà sono di un concorrente. Tanto avviene mediante l’uso di nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri, con ciò riferendosi al nome dell’impresa, al nome del dominio internet, all’insegna rappresentativa o, ancora, a qualsiasi segno (parola, figura, logo, etc…) capace di contraddistinguere la provenienza di un bene o di un servizio da un certo imprenditore. Figura affine a quella appena descritta è la c.d. imitazione servile la quale vuole indurre in confusione il consumatore circa l’origine del prodotto facendo leva proprio sulla capacità distintiva del prodotto stesso, con precipuo riferimento alla copiatura di una particolare caratterista esteriore propria esclusivamente di un determinato articolo; parafrasando la più recente giurisprudenza, “Gli atti di “imitazione servile”, contemplati dall’art. 2598 n. 1 c.c., sono quelli che realizzano un’imitazione del prodotto o dell’attività altrui tale da ingenerare confusione nel pubblico; trattasi, quindi, di imitazione delle caratteristiche esteriori individualizzanti del prodotto” (cfr., ex multis, Trib. Pordenone Sent., 19.04.2018); “…in tale contesto viene evidentemente in considerazione la capacità distintiva del prodotto imitato, e cioè il fatto che esso sia dotato di forme o di elementi esteriori non banali o standardizzati nello specifico settore e che abbiano assunto nella percezione del pubblico di riferimento la qualità di segno distintivo del prodotto stesso” (cfr. Trib. Milano, Sez. spec. in materia di imprese, 03/09/2018). Anche la copiatura di cataloghi e listini o dell’arredamento dei locali sociali viene ricondotta dal legislatore all’alveo della concorrenza sleale, rilevante civilmente.
2) Al n. 2, l’art. 2598 c.c. sanziona l’imprenditore che diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; la denigrazione può quindi riguardare tanto i prodotti quanto l’attività di un concorrente, le qualità personali dell’imprenditore potendosi rivolgere tanto ad una platea estesa, quanto ad una cerchia più ristretta di persone essendo comunque determinante l’idoneità a procurare, anche solo potenzialmente, un danno concorrenziale (c.d. pericolo di danno competitivo), inteso come difficoltà di mercato arrecata all’altrui azienda: “Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell’imprenditore nell’ambito professionale (esclusa la sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l’impresa gode presso i consumatori, dovendosi apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, non solo l’effettiva “diffusione” tra un numero indeterminato (od una pluralità) di persone, ma anche il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi” (cfr. Cass. civ., Sez. I, 31.10.2016, n. 22042). Infine, per appropriazione di pregi si intende la semplice comunicazione al pubblico che la propria impresa o i propri prodotti presentano gli stessi pregi dell’impresa o dei prodotti di un concorrente, dove pregio è qualsiasi caratteristica, anche non rara, che il mercato valuti positivamente e che sia pertanto capace di influire sulle scelte del pubblico; ovviamente, poi, tale auto-attribuzione deve riguardare pregi che in realtà non si posseggono. Lo strumento tipico attraverso il quale si realizzano casi di denigrazione o approvazione di pregi è la c.d. pubblicità comparativa, ovvero quella che mette a confronto i beni o i servizi di un imprenditore con quelli di un concorrente: “La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori” (cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 12.10.2018, n. 25607).
3) Il legislatore, infine, stabilisce che compie un atto di concorrenza sleale chi si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda; la generica locuzione adoperata, in realtà, racchiude una vasta ed importante gamma di fattispecie particolari che soventi costituiscono l’oggetto del giudizio civile, fra le quali appare opportuno menzionare, fra le altre: la concorrenza parassitaria, lo storno di dipendenti, la sottrazione di segreti aziendali e la pubblicità ingannevole.
“La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente, mediante l’imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, in un contesto temporale prossimo alla ideazione dell’opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), vale a dire prima che questa diventi patrimonio comune di tutti gli operatori del settore” (cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 07.02.2020, n. 2980); si richiede, in particolare, che l’imitazione delle iniziative di un imprenditore concorrente sia sistematica, ovvero che riguardi praticamente tutto quello che pone in essere il concorrente, e che avvenga a distanza di poco tempo dall’iniziativa imprenditoriale originaria.
“Affinché lo storno dei dipendenti di un’impresa concorrente possa costituire atto di concorrenza sleale, sono necessari la consapevolezza nel soggetto agente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui impresa ed altresì l’“animus nocendi”, cioè l’intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi sussistente ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente” (cfr. Cass. civ. Sez. I Sent., 29/12/2017, n. 31203); premesso che figure affine ai dipendenti, in senso proprio, dell’imprenditore vengono considerati i concessionari, i collaboratori, gli agenti, etc… la giurisprudenza, al fine dell’illiceità della condotta, ritiene indispensabili non solo la consapevolezza dell’agente circa la predisposizione dell’atto a nuocere il concorrente ma anche la volontà, l’intenzione, dello stesso di conseguire tale risultato mediante l’acquisizione dei dipendenti altrui; elementi presunti atti a deporre in favore dell’illiceità della condotta sono il numero di dipendenti sottratti, la loro qualifica (ad esempio l’acquisizione di soggetti-chiave per l’esercizio dell’altrui impresa), le modalità del trasferimento (ad esempio la volontà di disgregare l’organigramma altrui, l’utilizzo di infiltrati nell’altrui impresa o la preordinazione volta alla sottrazione di segreti aziendali).
Circa l’illecita sottrazione di segreti aziendali appare utile partire dai concetti di avviamento commerciale e “know-how” dell’impresa, con ciò intendendosi la capacità dell’attività di conseguire profitto nonché l’insieme delle conoscenze e delle abilità operative necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa; com’è noto, ambedue i suddetti fattori non saranno immediatamente conseguibili dall’imprenditore neoentrato sul mercato il quale avrà la necessità di costruire un apparato organizzativo interno, di tessere relazioni commerciali con gli operatori del mercato, di acquisire conoscenze tecniche attraverso l’esperienza e la sperimentazione, di approntare appropriate strategie di mercato, di marketing, etc… tutte circostanze che, una volta perfezionate, comunque dopo un imprescindibile lasso di tempo, costituiscono un patrimonio immateriale che si ritiene possa costituire i segreti aziendali oggetto di disamina, ovvero tutte quelle informazioni circondate da particolari cautele che impediscano a terzi di avervi accesso; che siano “particolari” di natura tecnica o commerciale, essi rappresentano l’investimento e gli sforzi effettuati dall’impresa per operare proficuamente sul mercato di guisa, costituendo il patrimonio immateriale dell’imprenditore la cui illegittima acquisizione configura l’illecito civile previsto dall’art. 2598 c.c. Si pensi, ad esempio, alla sottrazione degli elenchi della clientela, dei fornitori o dei partner commerciali, all’acquisizione delle informazioni tecniche atte a realizzare il prodotto, e così via.
La recente pronuncia n. 6033 del Cons. Stato, Sez. VI, con riferimento alla pubblicità ingannevole ha avuto modo di spiegare che “Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, inganni o possa ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, sia idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata”.
In chiusura, ribadito come la presente trattazione non può né vuole considerarsi esaustiva sul tema della concorrenza sleale, che verrà scandagliato nei prossimi articoli, si ritiene utile parafrasare una recente pronuncia -lì, 07.11.2019- del Tribunale di Bologna, Sez. Imprese, per cui la finalità che si pone l’art. 2598 c.c. è di mantenere alla attività della impresa come concretamente svolta la sua funzione distintiva, garantendo che sia rispettata la possibilità di identificare quella impresa come fonte della produzione di beni e servizi, rispetto a comportamenti che ingenerino equivoci circa la provenienza dei prodotti, determinando uno sviamento della clientela.